Sto attraversando il valico
dell’Appennino con la stessa caparbietà necessaria a fendere le gole del
Colorado: preparo un blitz marittimo per eludere le resistenze dell’ufficio
stampa, avvalendomi di contatti trasversali, nella speranza di ottenere una
breve conversazione con un autentico figlio di Engelwood camuffato da sciamano.
David Eugene Edwards non attende il nostro arrivo, da giorni si è acclimatato
al sole delle spiagge ravennati come un silenzioso animale a sangue freddo in
fuga dall’ombra. Eppure scorgendolo camminare con il dondolio impercettibile
del suo passo un po’ spavaldo diresti che ha appena fermato il cavallo allo
steccato, e che le dune circostanti non appartengono al lido dell’Hana-Bi ma a
qualche deserto sterminato d’oltreoceano. Alla richiesta estemporanea di
intervista si concede con una ritrosia che forse è riserbo forse disinteresse,
forse pura accondiscendenza di fronte a un gentil sesso raramente così gentile;
nei pochi minuti accordati, quasi fossimo nel parlatorio di un carcere, tento
di concentrare in una raffica di informazioni la sua fede religiosa, la vita da
musicista, il nuovo disco, le sue scelte sonore, schivando nel frattempo i
sorrisi gentili ma velati di indolenza e distacco.
Considerando i contenuti dei
tuoi testi, penso sia difficile evitare di parlare della tua posizione
religiosa. Come la definiresti, al di fuori dell’ambito musicale e della tua
poetica in generale? Pensi che il tuo pubblico sia in grado di comprenderla?
Voglio dire, è raro che l’ascoltatore medio sia un credente.
Non saprei, non ho una formula
particolare, faccio solo la mia musica e canto di ciò che mi interessa o che mi
sta a cuore, quindi in realtà non c’è una separazione fra la musica e i testi.
Non mi preoccupo del fatto che la gente capisca, e nemmeno se io capisco;
lascio semplicemente che le cose vengano fuori mettendole poi insieme nella
forma che al momento mi sembra buona o interessante, e che poi mi parla in modi
diversi in momenti differenti.
Quindi credi che il fatto di
sentire qualcosa come importante su un piano personale lo renda importante in
senso universale?
Ho detto che è importante per
me, ma non credo che sia necessariamente importante per chiunque ascoltare la
mia musica o quello che ho da dire; io faccio quello che faccio, a qualcuno
piace e a qualcuno non piace, c’è gente che viene a sentirmi e gente che rimane
a casa.
Pensi che la tua fede sia in
qualche modo in contrasto con lo stile di vita tipico dello showbiz musicale e
con lo stereotipo dell’artista maudit?
Come gestisci questa contraddizione?
Come può gestirla chiunque
altro? Io non penso che ci sia un modo di vivere compatibile con la fede; solo
Gesù è compatibile, tutti gli altri sanno chi è e cosa ha fatto, ma non si
comportano nello stesso modo.
Quindi credi che ci sia sempre
un divario tra la fede e la condotta pratica, giusto?
Esatto, per questo è fede: hai fede in qualcosa non perché sarai
in grado di adempiere i precetti, ma perché è vero.
L’affabilità è forse un
riflesso incondizionato che per indole sfodera al cospetto di due fanciulle; io
ci leggo una timida ritrosia e un fastidio garbato per le incombenze
collaterali del mestiere, sicuramente un’insopprimibile voglia di godersi la
cena al tramonto. Mr. Edwards insomma è un osso duro, non indulge a parlare del
suo credo religioso e perciò tento di soddisfare la mia curiosità provando ad
avvicinarlo sul piano professionale, interrogandolo sulle implicazioni legate
al suo rapporto con l’etichetta di Jacob Bannon dei Converge.
Per quanto riguarda la
collaborazione con la Deathwish per Refractory Obdurate, pensi che lavorare con un’etichetta che si
occupa di un certo genere abbia in qualche modo cambiato il tuo suono o
condizionato il tuo approccio al nuovo disco?
Forse può aver interessato un
pubblico diverso; molti appassionati di musica pesante erano scettici e avevano
le loro ragioni, ma penso che uscendo su Deatwish abbiano anche detto “ok
proverò ad ascoltare”. Quindi forse qualche persona in più ha fatto un
tentativo.
Mi arrendo, ha vinto lui,
protetto dagli occhiali da sole e dai modi educatamente diffidenti da
mandriano.
Solo un’ultima domanda
riguardo al tuo disco. Perché hai scelto di filtrare la voce in tutti i brani?
Ho usato un microfono che ho
sempre, è come un telefono in una scatola di metallo. Semplicemente mi piace il
suono, il modo in cui conferisce una strana qualità alla voce: un microfono
normale alla fine è un po’ noioso!
Si presta con notevole
compiacimento alle foto ingenue che io e la mia complice Valeria, mossa da
adorazione genuinamente femminile, chiediamo proprio di fronte alle dune:
ancora sorride ma visibilmente più rilassato aggirandosi fra i tavoli, libero
dalla seccatura inaspettata a cui si è prestato.
Io continuo però a chiedermi come
incarni nella sua pratica quotidiana i precetti di povertà evangelica
contemplando l’altare della sua strumentazione pregiata sul palco, di questi
arnesi inanimati che resusciterà, predicatore laico, in una performance
tecnicamente ineccepibile e dal suono rotondo e potente, sebbene troppo
compatta e omogenea nella sua qualità spiccatamente americana. E il chitarrista
tamarro, che si compiace di mostrare i bicipiti afferrando il plexiglas della
sua Dan Armstrong, accresce la sensazione di dislocamento extracontinentale.
Ora posso comprendere la predilezione per la voce filtrata, stentorea nella
notte aperta, che sferza la sabbia con morsi feroci, sebbene io sia più
affezionata allo jodel abortito e alla quieta disperazione della sua emissione
naturale. Parimenti preferisco i vecchi episodi che raramente incastona come
preghiere occasionali nei capitoli del nuovo disco, snocciolati con sicurezza
come grani di un rosario conosciuto a menadito. La padronanza dei mezzi è
indiscutibile, l’appeal sul palco quello di uno che la sa lunga: eppure Mr.
Edwards convince senza esaltare, cattura senza irretire completamente.
Perlomeno me, non certo la mia sodale, seguace fedelissima irrimediabilmente
ammaliata.
Foto di Valeria Pierini
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